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Che siano prodotti, servizi o espressioni del genere artistico, virtuale o ideologico, tutte le attività umane hanno un duplice aspetto, una fase produttiva o elaborativa ed una fase in cui si consuma, si utilizza il prodotto. Alcuni ruoli, alcuni lavori, sono maggiormente sottoposti al giudizio dell’utilizzatore, soprattutto quando questi coinvolgono direttamente i sensi umani, l’arte maggiormente, così come la cucina!

In ambito gastronomico, tra la produzione in cucina ed il giudizio della sala, è necessario avere ben chiaro le parti in causa, definire le funzioni e soprattutto individuare il livello di professionalità di entrambi gli attori coinvolti. Ciò che si dovrebbe evitare è che un basso profilo giudichi un alto profilo professionale, o al contrario, una scarsa qualità produttiva venga fornita o servita ad un esperto del settore. 

Circoscrivere i ruoli è fondamentale prima di iniziare un qualsiasi passo di questa danza ; inizierei affermando che “un pittore non è un critico d’arte” ed un critico probabilmente non sa neanche come tenere in mano una tavolozza, ma al di fuori della propria prestazione o posizione è necessario che entrambi i ruoli siano sul medesimo livello professionale per avere un risultato congruo. Questo paragone artistico può in qualche modo essere mutuato nel mondo gastronomico, i cui soggetti interessati rivestono i ruoli di coloro che cucinano e coloro che degustano, in questo caso però l’ago della bilancia sembra pendere a favore della cucina, ma vorrei chiarire il concetto che per giudicare il cibo non bisogna necessariamente essere degli chef.  Uno chef può però sicuramente giudicare le tecniche adottate e la preparazione di una pietanza, questo si ed è qui che i piatti della bilancia assumono pesi differenti in questo settore. Cerco di districare la matassa: lo squilibrio più evidente è nella mancata professionalità e/o mancati requisiti professionali di colui che assaggia, giudica, degusta. Quali sono questi requisiti e quale è il profilo di colui che assaggia? Partiamo dall’assunto che lo chef ha un lungo percorso lavorativo per sviluppare manualità e sensualità prima di definirsi tale, mentre per l’assaggiatore, salvo coloro che escono da una formazione come l”l’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo“, spesso non si ha cultura neanche delle materie prime. Questo squilibrio tra le parti oggi si manifesta maggiormente in quanto una di queste parti (coloro che consumano) ha a disposizione una potente piattaforma che regola il mercato e l’altra (la ristorazione) non ha alcun mezzo; il mercato lo sappiamo è fatto da acquirenti non da produttori e non sempre il mercato premia i migliori. Vediamo gli attori coinvolti in questa danza tra mestoli e palati:

Mestoli

© VAN-eggio - Francia - Loira - Chateau Chenonceau

“Un pittore non è un critico” abbiamo detto, ma è un artista e in quanto tale, come uno chef, ha quel percorso interiore, spesso tormentato, che lo consuma e lo lega a produrre in un ciclo senza fine, finché la stanchezza non sopraggiunge; la creatività è la sua droga e la sua condanna, la ricerca è la spasmodica frenesia di trovare una nuova droga, scavare è la sua natura, scavare dentro, profondamente.
Lo chef per sviluppare le sue doti ha impiegato tempo, ascoltato i suoi maestri, sbagliato migliaia di volte (un maestro di sushi impiega 10 anni per impararne la tecnica, con quella ricerca di perfezione che contraddistingue la cultura nipponica); tutto sommato è come per i compositori di musica; in cucina sono 4 i macro ingredienti che puoi ingerire (carne, pesce, frutta, verdura), così come solo 7 sono le note, ma quanta musica e quante ricette sono state create finora è un numero incalcolabile! Solo la creatività può definire un limite; solo la dedizione può appagare quel bisogno che uno chef ha di sperimentare. E’ un lavoro massacrante che non conosce orari, è un percorso lungo, duro, che spesso non ha molti riconoscimenti.

Attenzione però, quando parlo di tormentata creatività di uno chef mi riferisco a quei professionisti che nel lungo percorso formativo, giustamente poi riconosciuto dalle guide di riferimento, hanno nel loro bagaglio culturale quanto meno letto per studio o per passione “La fisiologia del gusto” di Jean Anthelme Brillat-Savarin ed almeno un tomo di Auguste Escoffier, che hanno dato alla cucina francese quello starter in più rispetto all’enorme potenzialità della cucina italiana, infondendogli quell’adeguata prospettiva storica, teorica e meditativa, nonché aver codificati per primi in ricette specifiche quello che un tempo era in pasto a tentativi esoterici ed alchimistici. Non escludiamo però dai grandi testi classici della cultura gastronomica anche i fondamentali italiani Artusi o il Carnacina (purtroppo meno conosciuti di un più triste e semplice ricettario come il “Cucchiaio d’Argento” a portata di massaia). In questo inutile paragone culturale gastronomico tra Francia ed Italia possiamo essere orgogliosi di almeno un primato storico, che i gesuiti e ancora prima alcuni autori greci hanno contribuito molto ma molto tempo prima del XVIII-XIX sec. francese a fondare le basi di quello che oggi è la cucina italiana, prima latina e romana poi influenzata dalle innumerevoli invasioni arrivate dal mare nella nostra penisola. Purtroppo i nostri primati sono sempre legati alla lunga storia del nostro territorio, restiamo sempre nani sulle spalle dei giganti, per fortuna attualmente abbiamo dei geni della cucina del nostro paese che troneggiano a livello mondiale.

Fatta la breve e doverosa parentesi storica iniziamo col dire innanzitutto che ci vuole rispetto per coloro che trasformano il tuo cibo e per gli chef ci vuole rispetto per le materie prime, conoscenza della filiera dei prodotti e quantomeno nozioni delle differenze tra biologico e convenzionale; che vi sia dell’etica nella coltivazione e negli allevamenti dei prodotti usati in cucina. Coinvolgere il km 0 si, premiare la tradizione enogastronomica del proprio territorio si, credere che il proprio territorio abbia i migliori prodotti no! E’ sicuramente una soluzione etica per il pianeta il Km 0 ma non sempre si sposa con la migliore qualità; non amo la globalizzazione ma se tutti pensiamo che ognuno su questa minuscolo geoide abbia il miglior prodotto  rispetto al vicino di casa è facile dedurre che c’è qualcosa di profondamente sbagliato nell’orgoglio del “locale”. La natura e le stagioni non sono uguale in tutto il pianeta, per fortuna aggiungerei!
Queste sono le mie personali considerazioni sul fronte “mestoli”, la parte produttiva, per la quale patteggio in verità (non sono imparziale), che mi spinge a viaggiare, a curiosare tra i produttori più pregevoli, tra le ricerche degli chef e la creatività messa in campo. Vediamo però chi c’è dall’altro lato: 

Papille Gustative, olfatto e palati vari

© www.taccuinigastrosofici.it
© www.focusjunior.it

L'”assaggiatore”, non uso la parola “critico” perché implica tutta una serie di aspetti che non appartengono al contesto enogastronomico, né tantomeno all’espressione creativa del cucinare. Il ridicolo concetto di critico gastronomico che in passato esprimeva esclusivamente note critiche negative per attirare i lettori, appartiene ad un cliché già ben ridicolizzato nel passato trentennio per fortuna.

Anche il ruolo di colui che giudica il cibo dovrebbe prevedere un percorso formativo altrettanto lungo come per tutti i vari componenti della brigata in cucina, un percorso che prevede del tempo e per lo più vario; uno dei principali requisiti di colui che assume il compito di giudicare quanto prodotto in cucina dovrebbe essere l’età a mio avviso, ci vuole del tempo per affinare il palato e ci vuole, soprattutto in Italia, una certa età per ottenere una propria indipendenza economica e permettersi ristorazioni di alto livello, così da aumentare la rosa dei paragoni ed innalzare l’asticella di volta in volta. Oggi si leggono critiche da 14enni che esprimono giudizi quando il solo paragone maturato è il fast food sotto casa!

La capacità di giudizio nel palato implica possedere una propria natura caratteriale, che va costruita col tempo, con la cultura, la lettura; per arrivare a sviluppare nel proprio carattere un’abbondante dose di curiosità, possedere quell’apertura ad accogliere la novità, scevri da preconcetti culturali e personali e qualora presenti mettere in campo la forza dell’accogliere, aperti e possibilisti ad accettare a braccia aperte il cambiamento; ricredersi è una bella sensazione, soprattutto se è coinvolto il senso del gusto!
Per essere assaggiatori è necessario che per anni si porti ad affinare il senso del gusto, l’olfatto e le percezioni, così come un maestro d’orchestra affina il suo orecchio fino a sentire la singola nota di un singolo violino nell’intera orchestra. Tutto questo non prevede poco tempo e non esistono scorciatoie.

I parametri di un assaggiatore devono essere ampissimi, occorre che il naso sia allenato a percepire le alte e delicate molecole organolettiche di un labile polifenolo ed allo stesso tempo apprezzare il forte torbato di un bourbon del Kentucky invecchiato in botte di quercia bianca, che è pressappoco come del benzene sullo stallatico in una scuderia. Bisogna saper mangiare con il servizio d’argento e con le mani; apprezzare l’arte dei pluristellati e le cucine più semplici casalinghe con ingredienti più umili. Rispettare le tradizioni e gli aspetti storico/antropologici di una ricetta così come le tecniche molecolari e le composizioni destrutturate. Ci vuole “un palato innovatore con una papilla gustativa legata al passato ed un palato innamorato della tradizione con una papilla legata al cambiamento“.

Saper giudicare al contrario di cucinare è un viaggio di interiorizzazione nel proprio ego, è un percorso di accrescimento culturale volto ad accogliere, se vogliamo, forse anche più complesso del processo di esternare per gli chef, il percorso richiede molto più tempo e spazio; spazio perché bisogna essere anche un grande viaggiatore ed un discreto storico; la cucina lega il passato al futuro passando per il palato che è il presente.
E’ per questo che viaggio alla scoperta delle eccellenze enogastronomiche, perché è un edibile libro di storia ed è per questo che resto sempre dalla parte dei ristoratori e raramente dalla parte dei clienti, perché per colui che giudica non ci sono valutazioni con le stellette, i cappelli ed i bicchieri, non c’è un parametro di valutazione che indica se si è in grado di misurare un operato, il mercato non giudica e seleziona l’esperto assaggiatore, non ti misura i km che hai percorso e le esperienze vissute; quanti anni hai dedicato ad affinare i tuoi sensi, se riesci a sentire quella singola nota del violino o riesci a percepire l’intera orchestra come fosse solo un frastuono. Il mercato non ti misura quanto tempo hai dedicato della tua intera vita ad affinare il tuo palato, cosa mangi nel quotidiano, quanta attenzione poni nella scelta della materia prima, se conosci il mondo agro alimentare. Al mercato non interessa chi è l’assaggiatore né quanti anni hai. Il mercato giudica durissimamente però un ristorante quando esprimi un parere negativo.

Certo c’è anche da dire che se un palato raffinato o un cultore della gastronomia visita un ristoratore aspettandosi un riscontro, uno scambio culturale enogastronomico o un arricchimento sulle materie prime del territorio ed in sala ne sanno meno di lui è anche molto più triste del contrario. E’ un balletto, un magico girotondo, una danza tra cucina e sala, tra accoglienza ed arricchimento, tra mestoli e papille gustative.

Mi troverete in giro con il mio van, alla ricerca di eccellenze, tradizioni e specialità culinarie; studio la storia del territorio usando il tappeto enogastronomico.

Grazie per essere saliti a bordo – Buona strada e buon gusto a tutti
VANeggio

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